Evviva, Maria 
la nost'a’ vucata
la Téllibbra chiamata
noua antiamè a vésétà.
Madonna dé Ila Téllibbra
che sta’ ndésposta e bélla
chédeme cu rivirènzia
la santa benedizziò

Questo il vecchio inno (parte di  esso) che il popolo cantava in onore della Madonna della Delibera.
Questa festa, come quella di S Silviano, è una sagra popolare di fuori porta in cui è impossibile tracciare un netto confine tra il sacro ed il profano.
Due sono le leggende che corrono sulle circostanze che hanno portato al suo ritrovamento, pur se la seconda, anche se meno nota, a mio avviso è più interessante perché ci offre le motivazioni atte a spiegarci come tale Immagine, unica fra tutte quelle esistenti nella città e nel contado, sia stata eletta protettrice degli scampati alla morte; o meglio, doversi al suo intervento protettore l'averla scampata.

La prima è la solita storia del ritrovamento delle immagini sacre frequenti nella tradizione religiosa popolare.

Un contadino arando il campo sarebbe stato spinto alla scoperta dall'atteggiamento dei buoi che ogni qualvolta passavano davanti ad un vecchio muro si fermavano, vi si volgevano e si inginocchiavano. L'altra, invece, ci dice che un pastore inseguito da due briganti (erano il sale di ogni storia), sfiancato dalla lunga corsa fu acciuffato all'altezza di un vecchio muro. Sbattuto violentemente contro di esso dai due energumeni provocò la caduta dell'intonaco, ormai gonfio e marcio per l'acqua, scoprendo così l'Immagine e salvandosi la vita.

E’questo, dunque, secondo la leggenda, il primo intervento miracoloso della Madonna su un morituro. Se guardiamo gli ex voto vediamo sempre, in alto, la sua Immagine. Questo è comune a tutti gli ex voto di tutti i Santuari, ma qui da noi ha un diverso significato, sta a dirci qualcosa di diverso. Non è l'immagine allegorica dell'intervento della Madonna, ma è la rappresentazione reale del fatto, della sua presenza… come dire? Corporea? Ecco: corporea.
Il racconto degli scampati, infatti. si concludeva sempre:

 
De bbòtte m'é so  viste vucine la Madonna, m'è’ chiappàte pe nu vràcce, e...

Intorno a quel muro fu costruita una edicola (poco più piccola di quella della Madonna della Neve) accudita da n'arumite (romito). Quasi sempre era un vecchio che il più delle volte vi si installava per avere un rifugio e vivere delle elemosine che vi affluivano, che per devozione. 

Constatata, dunque, la devozione che la circondava, che si esprimeva tangibilmente con ex voto che coprivano le pareti della cappella anche all'esterno, si pensò d'ingrandirla.
Vi si mise mano sui primi del novecento. Il conte Antonelli fornì gratuitamente i materiali e i terracinesi la mano d'opera ed i trasporti, e costruirono quel Santuario con annesso convento che ancor oggi vediamo.

Santuario Antico

Essa oggi non è altro che una festa parrocchiale…simile ad altre feste. Le strade illuminate da archi di lampadine anemiche, i bbòtti, i fuochi artificiali e lo spettacolo di varietà  in piazza con cantanti celebri o spacciati per tali.   Ma ieri non era così.

Già l'attesa della festa cominciava da lontano. specialmente per i ragazzi che, oltre la Befana, non avevano altra occasione di avere qualche giocattolino.
Fin dai primi di agosto cominciava il conto alla rovescia. Mancano trenta giorni... ventinove... vent'otto…
E quanti progetti, quanti sogni!
Quasi sempre vanificati, perché tra i desideri e la loro realizzazione c'era il fossato spesso incolmabile delle disponibilità finanziarie della famiglia.
Ma che importava!
Forse la gioia era tutta lì: parlare, progettare, desiderare, sognare! L'aria di festa s'incominciava a respirare sin dall'inizio della Novena.

Nella luce pacata dell'ultimo sole la gente si portava al Santuario e dopo la funzione sciamava sotto gli alberi frondosi del piazzale e riempiva la strada, solitamente solitaria, che conduce in città, facendo corona alle vezzòche (bizzocchere) che "contavano" , o alle piatòse favorite.
Il gran fuoco ormai spento dietro il Circeo induceva ad un andare lento , quieto. Dolce era l'aria serotina e pregna dei languori del settembre che un tappeto verde-oro stendeva nella Valle adiacente.
Ed arrivava, alfine, il sette settembre, vigilia della festa.
Fin dal mattino  c'era tutta una frenesia. L'aria pareva più  tersa e più vivido il sole.
Era in tutti una gioia, una stimolante allegria invero inusitata nel terracinese.
Era un frettoloso andare e venire senza scopo, un incrociarsi di saluti calorosi.

  • le compagnie
E di più  cresceva la generale allegrezza quando cominciavano  a giungere a piedi, dalle città e paesi vicini, i gruppi di pellegrini che, preceduti da uno stendardo, scalzi a penitenza ecantando  inni, attraversavano la città per portarsi al Santuario.

Erano cori misti di uomini e donne a tre, quattro voci, Nessuno aveva insegnato loro musica o  i canoni del canto, eppure la  loro esecuzione aveva della perfezione.

La fusione armonica delle voci, la nitidezza e la trasparenza erano di uno  splendore, aggraziato  e vigoroso nel contempo, da lasciare stupefatti; le entrate dei gruppi tonali ammirabili per tempismo.
Affluivano e, come le onde quasi, si sovrapponevano gli uni agli altri  per tutta la giornata, la notte ed il giorno dopo.
Quest'ultimi erano  quelli che si potevano  permettere un carretto o il legno - così chiamate le diligenze, rispolverate per queste occasioni.
Entravano ginocchioni nel Santuario e si portavano fin sotto  l'altare.  Qualcuna - e non era infrequente - vi si portava strusciando la lingua  sul pavimento.

niente potevano  frati, ad  onore del vero  per interrompere quella medievale superstizione, che ne erano vietati dalla calca e dall'atteggiamento ostile della folla.
Dormivano per terra dove e come potevano: nel Santuario aperto tutta la notte, sotto i carretti, negli androni, sotto il pronao della Cattedrale.
La mattina dopo, cantando  l'inno  di commiato:

Madonna dé lla Tellibra
che sta ‘ndespòsta e bélla
dénte a lla sua cappélla
sémé state a véséta. 
  

ripartivano per le città di provenienza, con il paliotto inghirlandato di fiori di carta (segno che tornavano da un pellegrinaggio) e loro  stessi mascherati con cappelli e cappellini infiocchettati e con nelle borse i souvenir per parenti ed amici.

La sera il Santuario, il piazzale e la strada, illuminati dalle lucerne ad olio  o carburo  delle baracche (bancarelle), erano  zeppi di folla che ci si muoveva a fatica. 
C'era un frastuono, una cacofonia, un guazzabuglio tale che per intendersi si era quasi costretti a ricorrere a gesti. 
E cominciavano ad avere vita le costumanze antiche. 
Innanzi tutto c'era la doverosa "visita alla Madonna" che il nucleo familiare era tenuto a fare unito.

La madre, con a fianco il marito e circondata dai figli, invocava la protezione della Madonna sulla famiglia e dopo il rituale bacio dell'Immagine c'era, per i giovanotti, il "rompete le righe". 
Questi, intruppati con coetanei in bande allegre e rumorose, inalberando cappelli di carta variopinti (tipo alla "carbonara" o alla "bersagliera" o "chepì"), ed equipaggiati di tutta una serie di strumenti rumorosi (trombette, fischi, tamburi) e dandovi dentro a più non posso, scorrazzavano imperversando avanti ed indietro, ora suonando improvvisamente all'orecchio di una ragazza, ora proiettandole improvvisamente sul viso una "lingua della suocera".
Queste, a loro volta, si ripagavano dello spavento - o finto tale  - chiedendo la "fiera".  

Era la costumanza che caratterizzava questa festività. I giovanotti erano tenuti a fare la "fiera" alle ragazze ed a queste - udite! udite! - era consentito chiederla. 
In questa serata era loro lecito fare quello che in nessun altra circostanza e per nessun motivo era consentito fare: chiedere un regalino ad un giovanotto che non era neanche il fidanzato. 
Inaudito! 

Quale umiliazione sarebbe stata l'indomani non poter sciorinare davanti alle compagne tutte le fiere ricevute, che pur consistendo in oggettini di poco valore avevano un'importanza prestigiosa.
Forse era la prova, la misura del fascino che esercitavano? Ma invidiata era colei che poteva mostrarne uno solo e di una certa consistenza. Voleva dire che lo aveva avuto dal segreto ragazzo del cuore e che, di conseguenza, non aveva potuto chiederne ne accettarne altri.
Ma a chi la festa costava salata era al solito Cesario ed alla sua famiglia. 

Questi "doveva" fare la fiera alla fidanzata e questo dono consisteva in un oggetto ben preciso: una bambola. 

Più grossa e più vistosa era e più gelosa ammirazione e prestigio ne ricavava lui, lei e le rispettive famiglie. 
Era un dovere, un "obbligo" al quale non ci si poteva sottrarre.  
 
 - Che bambula è fatte ju spuse a Tummetilla! Lèh, te lèvua lu  vede!
Ch'è bèlla, ave?! -rincarava qualche parente di lei o di lui presente alla chiacchierata (o alla spettegolata? Scegliete voi).

Queste o simili esclamazioni avrebbero punteggiato alla fontana o al lavatoio i discorsi delle donne, mentre i soggetti di tanta invidiosa ammirazione, fingendo un'apparente noncuranza, schiattavano di soddisfazione.

ragazzi, invece, stavano in stato di guerra guerreggiata. Seguivano ammusoniti il branco familiare perché, come ho già accennato, vedevano crollare tutti i sognati progetti.

Le mamme premurose e tutte miele decantavano i pregi di quei giocattoli che potevano permettersi d'acquistare, ma che non rientravano affatto nella sfera dei desideri delle recalcitranti controparti, sino a che mandavano a carte quarantotto ogni forma di accomodante diplomazia e li attreppàvene de jastéme rinforzate da qualche robusto schiaffone.
Apriti cielo, poi, se il paterno genitore in un benigno slancio di magnanimità (specialmente se aveva qualche fiasco di vino in corpo) poneva fine alla guerra civile soddisfacendo le voglie del caparbio rampollo o rampolla!
Per le donne quello spazio diventava un salotto (o nu lavature?). I gruppi familiari si scambiano frizzi e bonari motteggi. Le donne chiacchieravano lietamente, facendo qua e là qualche pettegolezzo. Tanto per non perdere l'allenamento. E tutti logicamente si rimpinzavano di leccornie. Bruscolini (semi di cucuzza tostati), scroccacanasse (scrocchia mandibole), nòccheje (noccioline), cupéta (torrone, ma di quello a blocchi di mezzo metro di lato da doversi tagliare con l'accetta), fichetìneje (fichi d'India), e qualcuno più temerario fra i giovani mangiava addirittura qualche dattero o qualche pezzo di noce di cocco.
Ch'é ssa ròbba?
Ròbba che vè da lla' Freca - rispondeva l'altro con noncuranza, come se per lui era cosa abituale mangiarne.
- Lèh! - replicava schifata l'altra - me si truvuàta che me magne sa cescarìa!
E tant'è!

Si intrattenevano presso i saltimbanchi, i giostrai. Spalancavano gli occhi stupiti sui mangiatori di fuoco, sui forzuti spezzatori di catene e si sbellicavano dalle risa alla farsa "dammi il ciufile". 

Si accroccavano intorno ai cantastorie per poi commentare le loro truculenti ballate.
Consentitemi un ricordo personale, uno dei più vivi di me bambino.
Era un vecchio che cantava una ballata sulla Madonna della Delibera e si aiutava con dei cartelloni dai disegni, come definirli? Dai disegni... boh!
Impressionante non era soltanto lui, ma anche ju tréppej (folla) che lo circondava.
Ed ecco la scena. Iniziava il canto, dicendo:

Levuàteve la cappélla

 e tutti si toglievano il cappello.

Mettéteve la cappèlla

 e tutti, in sincronia, si mettevano il cappello in testa.

 Luvuàteve la cappèlla

 
e di nuovo tutti, simultaneamente, si scappellavano.

 Che la Madonna stò nghe a mentuvuà

(mentovare -nominare)

tra la generale compunzione, brutalizzando una sgangherata e scordata chitarra, proseguiva urlando lacrimose storie di malattie, di mancati scannamenti, di iperbolici incidenti, tutti brillantemente risolti con generale soddisfazione dal tempestivo intervento della Madonna della Delibera, che, povera donna, sovraccarica di lavoro com'è non può certo arrivare dappertutto, ed allora è comprensibile, ora lo capisco, come qualcuno ogni tanto ci lascia le penne.
Gli scherzi che si facevano l'un l'altro come raccontarli? Erano infiniti e vari - se pur grossolani e pesanti - e sana ed autentica l'allegria. […]

 Una Storiella

Raccontava il mio avo materno che era sua abitudine riposare presso la cappellina quando scendeva dalla montagna (era Guardia Campestre del Comune) e si sedeva su un cumulo di calce indurita che era ammucchiata ad uno spigolo.
Ci stava scomodo, diceva, e più volte aveva pensato di spianarlo con il calcio del fucile, ma per la stanchezza e l'apatia non l'aveva mai fatto.
Un giorno però lo trovò spaccato ed all'interno vi era rimasta impressa la forma di uno stivale.
Qualcuno vi aveva trovato dell'oro seppellito dai briganti (i briganti calzavano le ciocia, però, guarda un pò, l’oro lo seppellivano sempre in uno stivale. Mah!).
"Ogni giorno, e per tanti anni, sono stato seduto su un tesoro e la Madonna non me lo ha fatto trovare! Mah! Force pecché j chiove a Criste ce j so miss'je !".
Storie sul ritrovamento dell'oro seppellito dai briganti ne circolavano tante.
La famiglia Carocci e Di Girolamo, per esempio, lo avevano trovato ed ecco spiegata la loro fortuna. Altri, in verità, la spiegavano insinuando che fossero stati i manutengoli di quelli.
La famiglia Nardelli lo aveva trovato in un vecchio muro tra l'ospedale ed il serbatoio.
La famiglia Antonelli (quella di Nine ju rusce, per intenderci) l'aveva trovato alla Madunnèlla (sulla Selce, poco dopo la stazione ferroviaria). E così via.
Nessuno ammetteva che quelle fortune (fortune, poi...!) erano il frutto di lavoro, sacrificio ed intelligenza, perché ciò sarebbe stato ammettere la propria inettitudine. Infatti, Fortuna è il nome che spesso si dà al merito altrui.
 

La Scussura

 
temporali che sono intorno alla metà di Luglio, d'Agosto e quello della prima decade di Settembre, erano chiamati rispettivamente:
 
    la scussùra de ju Cuàrmene
    la scussùra de la'Ssùnta
    la scussùra de lla Dellìbbra

[ tratto da “Fra vetuste Mura”  di Genesio Cittarelli]


 Si ringraziano i figli dello scomparso autore per la collaborazione......a sua memoria